Perché sono così importanti i condimenti? Non sono forse qualcosa di secondario, che ‘si aggiunge’ all’ingrediente principale del piatto?
Pensiamoci bene: uno spaghetto cacio e pepe, o all’amatriciana, o alla carbonara si definisce così perché è uno spaghetto o perché viene condito in un certo modo? Sono proprio le modalità di preparazione a definire gusti, abitudini, identità gastronomiche e culturali.
È chiaro che la sopravvivenza non dipende da un sugo o da un profumo. Ma è altrettanto chiaro che la memoria gustativa, e il senso di appartenenza che ogni cucina dà a chi la pratica, dipende da questi ‘particolari’ più che dagli ingredienti di base. Sono i condimenti a dare calore e senso alla cucina, a trasformare il gesto di mangiare in qualcosa di più complesso di un semplice atto nutrizionale, facendone uno strumento di socialità e di appartenenza.
Mangiare pasta è essenziale per gli italiani, ma non sufficiente a costruire una memoria. Ciascuno di noi è legato a precisi sapori e profumi, a modi diversi di trattare e preparare i prodotti, con quel tocco in più (o in meno) che fa la differenza, e a lungo andare genera affezione, costruendo una memoria del gusto e dando vita a una tradizione – non importa se antica o recente – negli usi di singoli territori, città, comunità, famiglie. Gli emigranti genovesi, alla fine dell’Ottocento, scrivevano ai loro cari rimpiangendo gli affetti e i gusti di casa. Non la pasta in sé, che trovavano anche oltre oceano, ma il profumo dell’aglio pestato e del basilico fresco, con cui erano abituati a condirla.
Sono i condimenti (il cacio e il pepe, o chi per loro) a costruire il piatto. Il latino condìre, che indica appunto il condimento, ha un’etimologia simile a còndere che significa ‘fondare’.