Cacio e pepe, ovvero gli opposti che si incontrano.
Il cacio, il formaggio, nella tradizione italiana (e più in generale mediterranea) è sempre stato un cibo popolare. Nella realtà e nell’immaginario. Certo, ci sono sempre stati formaggi di qualità, destinati al mercato e alla mensa ricca. Ma dire formaggio significava prima di tutto alludere alla tavola contadina – a volte neppure alla tavola, ma a un cibo che i contadini portavano con sé al lavoro, per consumarlo nei campi. Per loro (solo per loro) era una risorsa essenziale per la sopravvivenza quotidiana.
Con il pepe si cambia scenario. Ci sediamo alla tavola dei ricchi, che si permettono il lusso di acquistare costose spezie orientali. Questo valeva in età romana, quando il pepe era la sola spezia utilizzata in cucina. Valeva nel Medioevo, quando il mercato si arricchisce di una straordinaria varietà di spezie. Sul piano gastronomico, esse diventano il simbolo per eccellenza del privilegio signorile.
Difficile pensare al “cacio e pepe” come a un’invenzione popolare. Semmai potrebbe essere la rielaborazione popolare di un modello gastronomico ‘alto’. Nel Medioevo e nel Rinascimento, la pasta compariva anche sulla tavola dei signori ma era sempre arricchita di spezie. Spezie che si aggiungevano al formaggio, prodotto contadino, sì, ma adattissimo a condire la pasta. Proprio le spezie, e il burro, servivano a rigenerare l’immagine del formaggio, magicamente trasformato da cibo povero in ghiottoneria per ricchi. In età più recente, le spezie arrivarono più abbondanti in Occidente e diventarono più accessibili alla gente comune (mentre a poco a poco scomparivano dall’alta cucina, proprio perché non avevano più alcuna funzione distintiva). Gli spaghetti cacio e pepe, che oggi percepiamo come piatto popolare, sono un frutto di questa storia.