Quelli che oggi chiamiamo spaghetti non si sono sempre chiamati così.
Questo modello di pasta di forma allungata, forse di origine persiana, fu importato in Italia dagli Arabi nel IX secolo, col nome di tria. Qualche testo ce ne lascia intuire la presenza: per esempio, una novella toscana del Trecento racconta di un personaggio seduto a tavola mentre “ragguazza i maccheroni, avviluppa, e caccia giù”. Avviluppa ossia avvolge e rigira: il gesto classico per raccogliere gli spaghetti dal piatto. Solo che il testo li chiama maccheroni.
Rimase questa, per secoli, la parola più usata per indicare gli spaghetti. Ancora oggi, a Napoli e nel sud Italia, si chiamano in questo modo.
Spaghetti – che significa cordicella, “piccolo spago” – è una parola molto più recente, che appare a metà dell’Ottocento. Solo un paio di ricette antiche fanno prevedere questo esito. Sono due ricette di Maestro Martino, il cuoco più famoso nell’Italia di fine Medioevo. In una si spiega come fare i «macharoni siciliani»: lavorare l’impasto fino a ricavarne dei fili lunghi un palmo e sottili quanto una paglia, forati con un fil di ferro «sottile come uno spago». La parola spago qui non si riferisce alla pasta, ma al ferro per bucare la pasta. Ma un’altra ricetta di «macharoni», che Maestro Martino chiama “alla genovese”, insegna a tagliarli sottili «non più di uno spagho». Siamo a metà del Quattrocento ed è la prima volta che il termine spago compare con un’accezione gastronomica: la via agli spaghetti è segnata, anche se bisognerà attendere secoli per vederla apparire nei ricettari.